Ho presentato questa sequenza di foto nel 2013 alla mostra “La beat generation e la pittura di Jack Kerouac” a Locarno, una sequenza che può forse apparire spietata, ma in realtà per me celebra il Poeta che dall’abisso si solleva al massimo degli onori.
Si era verso la fine degli anni Ottanta, Gregory Corso si trovava in un percorso alcolico di ore e ore per il centro di Roma finito col massimo della provocazione a Piazza del Fico orinando sui presenti, poi ciondolando ironico alla ricerca di un contatto umano che non poteva trovare, perso com’era… infine, dopo essersi raccolto ad un tavolo in preda a qualcosa di estremamente sconsolato, lo trovai piegato in una solitaria lotta con le convenzioni in cui il buio era la sua luce.
Morì nella lontana America, una terra dove era nato per caso -figlio di due troppo giovani genitori immigrati italiani- dove però la brutalità della vita lo aveva esposto alla poesia nel posto meno aspettato, in una prigione in cui era entrato da giovane scassinatore e da cui usciva come Poeta, beat per essenza intrinseca. Si diceva che fosse stato segretamente Bob Dylan a far portare la salma di Gregory Corso a Roma al “Cimitero degli Inglesi”, accanto alla tomba di Shelley, uno dei poeti che lesse in galera e che gli rivelarono l’alterità possibile dei versi.
Mi è rimasta sempre impressa questa dura, continua dualità fra caduta e ascesa che Corso viveva in modo estremo, imperterrito fino alla morte, quando -forse per caso o forse perchè doveva andare così- ha trovato il posto a cui sentiva di essere destinato.