Biografia

Sono nato durante la guerra e cresciuto ad Ampezzo, in Carnia, un territorio che avrebbe saputo sollevare la testa sotto il peggiore degli oppressori e dare vita ad una Repubblica Libera. Trascorsi l’infanzia nella vita del paese, correndo nei boschi ancora pieni di residui bellici e storie segrete di Partigiani e Cosacchi. In ogni casa, in ogni osteria, si narravano storie eccezionali che scorrevano come rivoli in mille varianti, affabulate dagli inverni e dal vino… io ascoltavo, fra uno scappellotto e l’altro, aspettando il mio momento.

Poi l’esperienza militare mi ha messo in contatto con il sistema, sono riuscito a ritagliarmi un ruolo che mi lasciava abbastanza indipendente, ero esploratore alpino; da militare ho visto da vicino la tragedia del Vajont, davamo una mano ai superstiti, io avevo l’incarico di insegnare a sciare ai bambini sfollati… 

Il mio primo lavoro, 1968: assunto nei cantieri dell’Autostrada Adriatica come geometra, i miei genitori erano contenti, io no. Andavo a trovare mio fratello che studiava arte a Roma, lì c’era un’altra aria, decisi di licenziarmi e investire il denaro della liquidazione per acquistare una Leica… ora ero contento io.

Era il 1969, Roma era ancora in fermento, gruppi politici, culturali, comuni, situazioni in continua evoluzione che documentavo senza farmi troppe domande, anche io nel flusso degli eventi che mi sembravano eccezionali e normali allo stesso tempo. Ebbi la fortuna di fotografare l’esordio teatrale di Kantor, La gallinella d’acqua: fu l’inizio di un legame col teatro sperimentale che in seguito mi portò a far parte del Gruppo Teatrale Altro e che mi spinse a seguire quel filone d’interesse per molti anni.

Gli anni settanta mi trovarono preparato, gli schemi politici generali erano evoluti in forme e dinamiche contorte che facevano segretamente capo ad alcuni personaggi della politica e della cultura italiana, la consapevolezza della gente era rabbiosa, bastava poco perchè accadessero le tragedie. Le immagini parlavano chiaro, molto più di quanto potessero farlo le voci, il mio lavoro era testimonianza, documento, in quel momento più che mai. 

In quegli anni feci varie esperienze all’estero: vissi per alcuni anni a Berlino, riuscii anche ad andare in Eritrea con il Fronte Popolare di Liberazione, mentre era in corso la guerra con l’Etiopia.

Nel frattempo in Italia la “strategia della tensione” aveva lasciato il posto a qualcosa di mellifluo, ingolfato di potere e denaro, che avvolse il paese per tutti gli anni ottanta, in cui accadeva poco di eclatante a livello sociale, il corso degli eventi era sprofondato nei luoghi del potere, lontano dagli sguardi indiscreti dei fotografi come me. Il controllo dei media e dell’informazione era diventato pane quotidiano per il sistema, tutto era camuffato e sommerso.

Agli inizi degli anni Novanta conobbi della gente straordinaria, lavoravano per la Cooperazione internazionale per portare aiuto e sviluppo nei paesi del Terzo Mondo (allora si diceva così)… lì la realtà era dura, in una forma inimmaginabile per noi fortunati occidentali, andava documentata. Andava documentato anche il risultato del lavoro delle Organizzazioni internazionali come Prodere, perché potessero continuare ad operare, perché questi importanti canali umanitari non si arrestassero nell’indifferenza dei finanziatori. Cominciai a viaggiare in America latina, Colombia, Nicaragua, San Salvador, Guatemala… la vita quotidana delle popolazioni povere di quei paesi era spaventosa, bisognava superare il gap che ci separava e entrare in contatto con quelle persone, il loro mondo. A me riusciva facilmente: partivo molto spesso solo, seguendo tracce che nascevano quasi per caso, per avvicinarmi il più possibile alla realtà che dovevo fotografare e, quel che era più importante, venire accettato; facevo amicizia, entravo nelle case, ascoltavo storie personali che ancora oggi mi sono rimaste fisse in mente, ogni foto ha dentro una di queste piccole storie. Al rientro questi materiali erano tasselli abbastanza utili a completare il quadro d’insieme del territorio su cui le organizzazioni stavano pianificando gli interventi.

E dall’America Latina poi sono tornato in Africa, sempre per conto delle Nazioni Unite, a fare i conti di nuovo con le guerriglie, le malattie, le epidemie… ma anche con i bambini che camminavano ore per andare a scuola, gli stessi che ho poi trovato in Afganisthan, madri in attesa all’ospedale di Pemba, Tanzania, come quelle di Kabul…

L’esperienza che avevo maturato negli anni precedenti mi ha spinto ad approfondire il mio interesse per le società civili in situazioni di crisi, per cui alla fine degli anni Novanta mi cominciai ad interessare all’Asia Centrale, dove fui messo a confronto con un altro elemento in gioco che rendeva ancora più delicati e complessi gli schemi: la religiosità che permea la vita quotidiana e che non accetta deroghe, una realtà che può affascinare e lasciare sgomenti allo stesso tempo. Non comprendere o sottovalutare la questione religiosa significava fallire lo scopo di entrare in contatto con la popolazione locale, era imprescindibile, anche per un laico come me. Comunque, cogliendo le occasioni così come si presentavano, riuscii ugualmente ad entrare in luoghi generalmente considerati inaccessibili: carceri maschili e femminili, reparti di maternità, orfanotrofi, scuole coraniche…

Dopo numerosi viaggi in Afghanistan in cui mi ero concentrato sulla società civile, mi sono reso conto che avrei dovuto documentare di più la realtà fondamentale del conflitto in corso e perciò cominciai seguire varie missioni dell’ISAF (International Security Assistance Force), rimasi sorpreso: la struttura dell’esercito moderno era completamente cambiata rispetto ai miei vecchi tempi dell’ottavo alpini. Mi è sembrato un viaggio nel tempo: una terra disseminata di distruzione e strati di carcasse di mezzi bellici che si accumulavano da generazioni uno sopra l’altro, mi sentivo come un geologo alle prese con una sorta di stratigrafia dell’orrore…